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Appunti

La Palermo degli ultimi

Di Francesco Faraci mi è già capitato di scrivere, forse non in questa sede… Adesso non ricordo. Ma per chi non mi avesse letto allora, ecco alcune considerazioni che mi è capitato di fare su di lui e sulla sua fotografia. Lo conosco circa cinque anni fa. Io e Giancarlo Marcocchi tenevamo delle serate di informali letture portfolio presso un pub. Francesco le frequentava insieme ad altri ragazzi ma il suo rapporto con la fotografia era… trattenuto. Forse la sua vita era un po’ ferma in generale. Non voglio cadere in facili psicologismi ma era chiaro dalla sua espressione più frequente che non credeva di poter cambiare nulla del proprio destino e si intratteneva in chiacchiere con una birra in mano come un predestinato. Predestinato, secondo lui, a nulla di che… Eppure era così giovane… Giacomo D’Aguanno lo conoscevo da più tempo, di fama. Per me era un fotografo di ottima reputazione, noto nella realtà palermitana come stampatore che stampava spesso per conto terzi, anche per “terzi” di qualità e con ottimi risultati. Lui di persona lo conosco da forse quattro anni ed è stata una bella conferma. Dopo una stagione autunno-inverno (2010-2011) di letture portfolio al pub, perdo di vista Francesco. Il pub finirà con il chiudere, disperdendo i suoi abituè. Nel frattempo, approfondisco la conoscenza con Giacomo e lo coinvolgo in qualche iniziativa da me organizzata, sempre di carattere fotografico. Recentemente lui coinvolge me per una mostra presso la fondazione Buttitta e decolla un bel rapporto. Dopo forse un paio d’anni incontro per strada Francesco. Visibilmente tutto è cambiato in lui. Ha lo sguardo di chi vuole prendere il proprio destino in mano ma generosamente lo vuole donare, lo vuole condividere, lo vuole dedicare. In quel periodo, quindi circa tre anni fa, nasce questa mostra, “La Palermo degli ultimi”, quando i due fotografi ancora non si conoscono ma curiosamente convergono, ciascuno con il proprio approccio e con il proprio stile, nel raccontare Palermo. D’aguanno fotografa con una distanza pittorica, ossia con l’atteggiamento di chi non si sente legato ad alcun momento decisivo, di chi non insegue il treno che passa una sola volta. La sua fotografia è meditativa. Francesco osa, osa chiedere alla gente di poter vivere con loro. La sua fotografia è partecipata, viva. Racconta del suo rapporto con la gente. Mentre il resto del mondo fotografico passa il suo tempo a chiedersi che cosa sia diventata la fotografia oggi, questi due la vivono e non hanno l’aria di lasciarsi prendere dall’incertezza. Quando tempo fa mi è capitato di recensire su una testata on line un lavoro di Francesco realizzato presso una casa dove si piangeva un morto, mi sono trovata a scrivere: “la Fotografia è tornata!”. Non tanto per il risultato. Le foto non erano né perfette né belle. Ma per il senso che da questo lavoro le veniva restituito: testimoniare che intere realtà e intere fasce di persone sono esistite con intensità. A volte con gioia come i bambini che giocano e gioiscono malgrado l’intorno, a volte con rabbia. A volte sole, come il cagnolino di D’Aguanno accucciato sul materasso gettato in strada. A volte in compagnia della famiglia, come in altri scatti di Francesco. Non ho idea di come e quando questi due si siano conosciuti ma l’idea di fare questa mostra insieme è stata coraggiosa sotto molti profili. L’allestimento, che si è basato sulla scelta di accostare i due autori , associando scatti in bianco e nero (Francesco) e a colori (Giacomo), è stata hard ma ha funzionato. Non soltanto perché il colore di Giacomo non è un colore qualsiasi, ma perché per contenuto e composizione l’accostamento dei due stili ha conferito ritmo alla mostra globalmente considerata. Ma l’operazione più coraggiosa in effetti è stata quella di Giacomo D’Aguanno che si è generosamente prestato al confronto con un ragazzo da lanciare, senza alcuna competitività, anzi con senso di protezione. Chi conosce l’ambiente della fotografia, oggi stressato dalla moltiplicazione indefinita dei fotografi su piazza, può capire quanto l’atteggiamento di D’Aguanno sia raro e generoso. Il coinvolgimento della fondazione Buttata così come di chi ha partecipato alla stesura dei testi per il catalogo (Giaramidaro, Calaciura, Buttata e Dell’Erba), è stato prezioso. Come, d’altra parte, l’ospitalità del Teatro Garibaldi che, anche per ubicazione, si è rivelato il luogo ideale. Una nota critica la dedico soltanto al titolo, che ha qualcosa di ingenuamente parrocchiale. P.S.: la mostra resterà visitabile fino al 18 gennaio 2016

06/01/2016
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