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Lo specchio con la memoria

IL RACCONTO DELLA BAMBINA MORTA

Un racconto reale e metaforico di Anna Fici

Sono trascorsi altri anni da quell'esperienza. Ho impiegato molto tempo per trovare le parole. Quando ho potuto, ho raccontato. E poi, ho inserito il racconto all'interno del saggio che ho pubblicato per Mondadori Università nel 2018: Nella giostra della social photography. Era la conclusione ideale, la più adeguata postfazione. Ve lo ripropongo perché mi gira ancora dentro il fatto accaduto e mi girano dentro le questioni che il racconto solleva, le prospettive sul ruolo della fotografia che presenta. Buona lettura!

IL RACCONTO

Una sera d’autunno di alcuni anni fa parcheggiavo in una piazza del centro storico di Palermo dove c’era un locale che frequentavo spesso all’ora dell’aperitivo. Anche quella sera ero diretta lì. Avrei incontrato degli amici con i quali, a fine giornata, eravamo soliti vederci per un resoconto delle nostre esistenze e condizioni di spirito. Mentre il cielo ti si spegne addosso, a volte con il dolore di un sigaro acceso, la vitalità degli amici rincuora e contrasta il rinnovarsi quotidiano del senso della sconfitta: inutili attese, propositi non rispettati, discussioni, ravvedimenti… Pare fosse un po’ per tutti noi un periodo di muta: cambiavamo le piume, chi passando dalla giovinezza all’età adulta, chi temendo l’arrivo delle piume bianche che ci consegnano all’ultima parte della vita. Amo i riti. Amavo quello particolarmente. E forse quelle sere, oramai andate, resteranno sempre come una fiammella di tremula, confusa, incompresa felicità. Ero innamorata. Ero… non so più come.

Di quegli incontri mancano degne fotografie, malgrado fossimo tutti fotografi. Fotografi che vanamente cercavano qualcosa che interrompesse il flusso del banale da cui tutto è trascinato senza sosta. Un’illusione bellissima! Che ci ha uniti e che ci ha resi nudi nel sorriso e nel pianto, per un po’.

Scendendo dalla macchina mi venne incontro Maria, la leonessa del quartiere: più che sessantenne, una donna che vive in strada spesso supportata dalla sua numerosa famiglia di figlie e nipoti, facendo la parcheggiatrice abusiva. Territoriale, agguerrita, con me capace di grande dolcezza.

«Sangù, come stai?»

«Tutto a posto».

«Vai dai tuoi amici?»

«Sì. Hai visto se sono già arrivati?»

«Sì, parcheggiò poco fa quello con la macchina bianca, grossa…»

«Ah, sì, Sergio. Va bene. A dopo».

Mi incamminai verso il locale dandole le spalle. E il mio sguardo intercettò l’ovale barbuto dell’uomo che ho amato di più guardare. Era già lì con Sergio e chiacchieravano. Man mano che mi avvicinavo il suo sorriso si andava aprendo e quando gli fui vicina si alzò, come faceva sempre, e mi abbracciò traballante, cercando l’equilibrio. Oggi quell’abbraccio, l’odore che emanava, li ripenso come un salto fuori dal buio. Ma gli occhi di Mauro – era questo il suo nome – avevano una luce che si eclissava spesso. Giocava con le tenebre della sua vita e in quel periodo forse provava ad ammaestrarle, con risultati incerti e discontinui. E tuttavia, quando accadeva uno di quei sorrisi il mondo di certo se ne accorgeva. Era bellissimo! Ed era per me!

Com’è faticoso raccontare quando le parole non sono solo parole ma grani veri del tuo tempo. In questi giorni sto leggendo un libro affascinante. Offre un resoconto divulgativo delle conquiste e delle ipotesi della fisica contemporanea, arrivando a sostenere l’illusorietà del tempo e la sua non necessità ai fini delle teorie relative all’universo. Questa lettura a tratti mi ha rasserenata perché mi ha catapultato lontano, in un lontano indefinito a guardare la vita da fuori, da un luogo informe, da cui tutti i suoni venivano aspirati lasciandomi immersa nel ronzio del silenzio, senza dolore, senza nulla. Finché la mente non si spegne, finché la mente non muore, c’è un senso anche del nulla, un sentimento persino. In questo caso positivo. Un senso di culla atavica. E lì stavo. Ma poi… Poi lo stesso libro mi ha reso agitata, perché mi sono scossa e mi sono chiesta: dove sei? Quali probabilità dell’accadere sei? Dentro di me accadi continuamente. Sei un fazzoletto di luce che vola nel buio.

Stavo per sedermi quando mi sento chiamare. 

«Sangù». Sempre «Sangù», che nella lingua di Maria sta per ‘Sangue mio’: quanto di più dolce possa uscire di bocca a una come lei fra un ruggito e l’altro. 

«Scusa, ma che c’hai qua la macchina fotografica?»

«Sì, perché? Che devi fare?»

«Devi venire un attimo con me».

Guardai Mauro che decise di seguirmi. Sergio rimase curioso in attesa. Altri amici non erano ancora arrivati. Attraversammo la piazza facendo la gincana tra le macchine caoticamente parcheggiate (grazie a Maria). Attraversammo l’odore delle caldarroste e il grido dei gabbiani che, pur avendo il mare a un battito d’ali, preferiscono oramai il cassonetto della spazzatura. 

E non so quanti lenti passi facemmo prima che Maria ci svelasse: 

«C’è ‘na famigghia che canusciu ca ci nascì ‘na picciriddra». 

E dopo una pausa sospirata: «Morta però. Sono qua alla clinica. Ci vulissi almeno una fotografia, così se la ricordano».

Mauro mi afferrò il braccio come per fermarmi. «Te la senti?» mi chiese. Io annuii.

A volte si va incoscienti verso il proprio squarcio. Ignari di ciò che abbiamo sepolto sotto un’apparente capacità di andare, di decidere, di determinarci.

Non l’ho capito quel giorno. Non l’ho capito neanche dopo, per molto tempo, che rivelazione sia stata quella povera bambina morta, senza neanche un nome, per me. So che è diventata la mia bambina, è diventata me bambina, i bambini che con determinazione non ho fatto nascere.

In una stanzetta stretta e lunga come un corridoio, forse ricavata da un corridoio interrotto, la luce al neon tremava del colore verdognolo di ogni distacco. Quando il calore di una cara vita ci lascia e anche il pianto lascia le nostre ossa, restiamo a galleggiare nel verde, freddo, marmoreo e muto dolore che lascia increduli, quasi distaccati. Così era la madre, seduta, su una sediolina di legno per bambini, decisamente troppo piccola per il suo generoso corpo. Verde in viso, con il collo segnato

da capillari rotti, violacei. Lo sguardo liquido che emergeva da due profondi solchi. Attorno a lei tante persone, familiari, forse vicini di casa, che stridevano in tutto: era domenica e sembravano tornati dal mare, con infradito e magliettine gialle e azzurre. Da noi è possibile ancora a ottobre, talvolta anche a novembre. Dal mare all’obitorio, in un baleno. Avevano ancora le voci del mare. Stentavano ad adattarsi a ciò che avevano trovato. Forse erano andati per una visita gioiosa, invece…

Sul fondo semibuio del corridoio, sopra un tavolino di legno, una culla e attorno tanti pallidi fiori. Caldo.

La bambina sprofondata nella culla, aveva una pelle color topo e occhi chiusi, piccolissimi, così sottili nelle palpebre che sembravano disegnati a matita. E quasi si poteva cogliere la fissità delle pupille in trasparenza. Oltre la finzione del sonno traspariva la morte, inesorabilmente. La pelle era così sottile che la bimba sembrava separata dal mondo solo da una sfoglia di cipolla, marcia.

Mauro mi stava dietro, senza parole. 

«Ho chiamato l’amica mia fotografa. Ava’, facci ’sta foto» disse Maria a voce alta.

Due cose colpirono la mia attenzione. Le minutissime dita e le minutissime unghie. Erano di un color rosso mattone. E per un attimo mi chiesi se le avessero assurdamente messo dello smalto. Ma come sarebbe mai stato possibile? Il pennello dello smalto le avrebbe colorato mezza mano per quanto queste unghiette erano piccole. Poi alle mie spalle una donna chiese a un’altra donna: 

«Ma comu moriu?»

«Il cordone ombelicale. Si è strozzata con il cordone ombelicale».

E capii il colore cianotico e le unghie rosse di sangue sottocutaneo.

Scattai la foto.

Mi accorsi poi che un uomo, abbastanza giovane, forse poco più che trentenne, giocava con il cellulare. E mi chiesi come mai nell’era degli smartphone avessero chiamato me per fare la fotografia. Me lo avrebbe spiegato più tardi Maria: 

«Ci vuole la stampa. Col telefono non viene bene».

Quell’uomo era il padre. E non sembrava nemmeno che gli fosse morto il cane. 

«È andata così, che ci vogliamo fare?» diceva a qualcuno. E guardava fuori, oltre la soglia, verso la vita, verso una partita di calcio che forse si stava perdendo. Sì, perché al pub poco distante da cui io provenivo avevano disposto un maxischermo. L’uomo conteneva altri bambini, forse pure figli suoi, di pochi anni.

Anch’io a quel punto davo un’occhiata alla vita. A Sergio, lì ancora solo, in lontananza. Forse s’era messo a guardare la partita per noia.

Uscimmo in un silenzioso corteo, io, Maria e Mauro e Maria mi disse:

«La stampi, che poi ce la do».

Un piombo nel cuore l’idea di dover stare ancora con quella fotografia sotto gli occhi, al computer, dallo stampatore a cui ho dovuto spiegare la strana avventura, sulla carta, in una busta in giro per casa.

La busta me la portai dietro tante volte, quando sapevo che probabilmente avrei incontrato Maria. La busta è stata a ‘riposare’ nella mia borsa in mezzo a gente che beveva, che rideva, che ballava, in quel pub. Io guardavo la borsa, intravedevo dentro la busta e le rivolgevo un pensiero.

‘Scusali, non lo sanno che dormi. No lo sanno che sei morta’.

Ma ogni volta che vedevo Maria lei mi rispondeva: 

«Non li ho visti. Tienila tu».

Girò per mesi con me quella busta. E Mauro mi invitava a disfarmene. Ma io non ce la facevo. Ero troppo triste all’idea che l’unica traccia di un’esistenza senza neanche un nome finisse nella spazzatura. Era la mia bambina. Quasi mi sembrava di averla vista solo io. E se io l’avessi gettata, la probabilità di accedere a quella vita sarebbe diventata definitivamente zero. Zero su zero. Come quando finisce un amore che è stato, che è il proprio amore. E ci trasforma in uno zero su zero.

24/06/2022
FOTOGRAFIA  IMMORTALARE  MONDADORI  MORTE  NELLA GIOSTRA DELLA SOCIAL PHOTOGRAPHY  SACRALIZZARE