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Lo specchio con la memoria

PORTICELLO. UNA COMUNITÀ

Una prossima mostra a Bagheria - Palazzo Butera - 30 settembre-14 ottobre 2022

Da molto tempo non propongo una mia mostra fotografica. E in realtà, di recente, scatto anche poco. Il perché è presto detto: subentra la depressione, un senso di inutilità… Perché in Italia non è riconosciuta alla fotografia né una dignità artistica, né una dimensione culturale. Il fotografo, perlopiù, non è considerato un uomo di cultura ma un tecnico, in passato un artigiano, forse. I fotografi di matrimonio, solo a mo’ di esempio, vengono assimilati ai camerieri, vengono fatti sedere al tavolo con l’autista…  Salvo quando degli sposi danarosi chiamano qualcuno che fa tendenza nel loro ambiente. E i fotografi di matrimonio di solito accettano questo trattamento, pur avendo, al pari dei più famosi ritrattisti in ambito pittorico, la responsabilità della rappresentazione di individui, età della vita, famiglie, la responsabilità di produrre memoria. Così, anche il rispetto per la professione nei vari ambiti (cerimonia, pubblicità, giornalismo…) è pressoché venuto meno, proprio con il contributo di qualche professionista che pur di lavorare ha talvolta accettato di fare cose svilenti. Della fotografia non se ne fa “discorso” pubblico, non la si considera una forma di scrittura capace di porre temi, avviare dibattiti, soprattutto oggi. Non abbastanza. Forse i lavori sulla condizione manicomiale che hanno portato alla legge Basaglia, costituiscono una tra le ultime volte in cui è successo. E l’unica sede in cui con la fotografia e attraverso la fotografia si parla sono i social. Dove però prevale la strumentalizzazione delle immagini, tirate per la giacchetta dal marketing delle cose, dei servizi e delle idee. 

La rivoluzione digitale non ha sconvolto la letteratura. A nessuno è venuto in mente di scrivere un saggio su ciò che cambia in letteratura in virtù della stesura digitale del romanzo. Nè di dubitare che il computer abbia prodotto la morte della letteratura o una post-letteratura o una iperletteratura. Anche se è sotto gli occhi di tutti che si scrive troppo, esattamente come si fotografa troppo. 

In chi scrive o fotografa con l’intento serio e profondo di conoscere, di capire, di raccontare, di trasmettere le proprie vibrazioni subentra un senso di inutilità. Quando lo si è provato una volta è molto difficile disfarsene, tornare a guardare le cose con occhi nuovi. Nutrire speranze.

Per me che faccio la sociologa in un contesto accademico, la fotografia è una forma di compensazione. E’ anch’essa ricerca. Esattamente come la scrittura. Ma ricerca emotivamente satura. Dunque trasgressiva. La fotografia è il luogo dell’empatia, che trascende la spiegazione scientifica. E allo stesso tempo la rende interessante e possibile. Senza passione nulla ha senso. E spesso non comincerei nemmeno a studiare se non immaginassi di poter vedere depositato il senso di ciò che ho compreso e provato in una fotografia che testimonia me e il mio incontro con una certa realtà. La qualità specifica, unica di una esperienza.

Recentemente ho trovato conforto in un gruppo di amici e colleghi in fotografia che mi ha restituito il piacere di “parlare”. Con le immagini, con la scrittura. Non importa. Parlare, esistere con la ragionevole speranza di trovare ascolto. Insieme, confrontandoci ed anche scontrandoci, abbiamo costruito un percorso che speriamo di poter fare. Si tratta dei membri di COLLETTIVOF e dei loro amici. 

La mostra che, grazie al loro incoraggiamento, ho pensato di proporre, non è del tutto inedita. Circa un anno fa’ era stata ospitata da Marenostrum, il Festival della fotografia del Mediterraneo di Mazara del Vallo. Ma ora viene riproposta nel periodo in cui anni fa’ (2014-2016) è stata scattata: i quindici giorni della Festa della Madonna del Lume di Porticello. Non proprio a Porticello ma nelle immediate vicinanze, ovvero a Bagheria, presso Palazzo Butera. Il titolo è PORTICELLO. UNA COMUNITA’. 

Si tratta di un omaggio ad un modo di vivere che mi è caro e che rischia l’estinzione. Ci si occupa tanto - solo a parole, purtroppo - di ambiente e di clima. Ma si dimentica la tutela degli ambienti e dei climi sociali che presentano delle qualità importanti, ancorché qualche difetto. Il clima delle comunità reali, in cui l’intera esistenza di ciascuno è gettata nella relazione con l’altro e non preserva niente per sé, nel bene e nel male. Il clima di quei contesti in cui vivere è immediatamente comunicare perché tradizioni, valori, problemi, linguaggio sono naturalmente comuni. Nelle comunità reali la comunanza è una precondizione e non l’esito di una ricerca, come nelle community on line o di una attribuzione posticcia, come nelle pseudocomunità generate da un brand o intorno a un vip. La comunanza reale lega, ci rende meno individui e più membri, con risvolti coercitivi, intrappolanti. La comunità reale è il fatto in cui siamo nati e da cui non possiamo prescindere. L’appartenenza può essere qualcosa di rassicurante, un antidoto alla solitudine. Ma ha le sue perversioni, le sue patologie. Tuttavia ho l’impressione che la stiamo frettolosamente eliminando, come si trattasse di uno scarto del progresso e della globalizzazione, senza averne davvero analizzato e soppesato le peculiarità. La domanda essenziale, la domanda elusa e per la quale non ho altra risposta che queste immagini, è: dove e come sei più felice? Dove e come hai la concreta percezione di lasciare una traccia che verrà ricordata, forse amata? Non ho risposte. La bambina è sola. Anche se un attimo prima giocava con le altre che ora l’hanno lasciata lì, di fronte all’inizio di qualcosa, di fronte ad una soglia che sicuramente non è solo quella della Chiesa.

18/09/2022
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